Chi è Jesse Ventura, il miglior candidato alla presidenza che gli USA (non) avranno

 In magazine

If not you, then who? Se non tu, allora chi? 

E’ una domanda che Jesse Ventura, ex governatore del Minnesota, sostiene di porre spesso a se stesso a proposito dell’opportunità di correre come terzo candidato alle prossime elezioni presidenziali americane. 

Se davvero Ventura sarà l’avversario di Donald Trump e di Joe Biden non è ancora dato sapere in quanto, come Ventura stesso ha più volte avuto modo di spiegare, l’unico modo per un candidato al di fuori del sistema duopolistico democratico-repubblicano di non essere schiacciato dai bazooka dei media mainstream, da sempre schierati con i Democrats o con i Republicans, è quello di scendere in campo all’ultimo momento per sparigliare le carte e cogliere di sorpresa gli avversari. 

“Fuori dagli schemi” è certamente una definizione che ben si applica a Jesse Ventura. La traiettoria che lo ha portato oggi a essere un potenziale candidato è infatti molto diversa sia da quella di Biden, già vicepresidente ai tempi di Obama e punto di riferimento dell’establishment – qualche tempo fa lo si sarebbe chiamato ancien régime – in quanto di casa al Senato già nel lontano 1972, sia da quella di Trump, padrone di un colossale impero immobiliare al momento della sua discesa in politica. 

Le origini di Jesse Ventura: dall’esercito, al wrestling, al cinema

Registrato all’anagrafe di Minneapolis nel 1951 come James George Janos, Ventura ha servito nei Navy Seals, reparto ultra-selettivo delle forze armate americane, per poi dedicarsi al wrestling, forte di una stazza così imponente da  fargli guadagnare il soprannome di The Body. 

Ben presto, tuttavia, Ventura dimostra di non essere soltanto un omaccione dotato di forza bruta ma anche un uomo dall’intelligenza acuta e dalla personalità carismatica. 

Una volta sceso dal ring, infatti, riesce a ritagliarsi un ruolo importante, sempre all’interno del wrestling, come commentatore televisivo che parteggia con i cattivi, una novità assoluta che contribuisce ulteriormente alla sua popolarità. Prova inoltre a unire i lottatori in un sindacato che dia loro più diritti e forza contrattuale, senza riuscirci, anche perché Hulk Hogan rivela il suo piano a Vince McMahon, il patron del wrestling, e ciò segna l’inizio della fine per Ventura nel mondo della WWE. 

Ben presto il physique du role, unito una buona dose di auto-ironia, gli apre per un certo periodo anche le porte di Hollywood. Il personaggio di Blain, soldato-mercenario tra i protagonisti di Predator, film-cult d’azione degli anni Ottanta, sembra fatto apposta per lui, con il suo cappello pitonato perennemente in testa, la guancia destra costantemente gonfia di tabacco da masticare e le sue battute da vero “uomo duro”, come la seguente risposta data a un commilitone:

“You’re bleedin’, man.” “I ain’t got time to bleed.” 

“Stai sanguinando, amico.” “Non ho tempo per sanguinare.”

Da Hollywood alla scrittura di saggi

La frase, che basterebbe da sola a definire il personaggio, ha consegnato Ventura alla storia del cinema e gli ha, in un certo senso, aperto le porte di un’ulteriore nuova carriera, quella di scrittore. 

I ain’t got time to bleed: Reworking the Body Politic from Bottom Up è infatti il primo di una lunga serie di libri sulle omissioni, le complicità e la corruzione sistemica, più che sistematica, della politica e delle lobby che negli Stati Uniti la fanno da padrone. 

I suoi libri vengono di norma frettolosamente bollati come “teorie del complotto” nonostante, come appare lampante nel suo saggio Il libro che nessun governo ti farebbe mai leggere: 63 documenti top secret, Ventura provi la veridicità delle sue tesi attraverso una miriade di fatti e documenti governativi descretati che di “teoria” hanno ben poco e di fattuale hanno invece tanto e che sarebbe fondamentale conoscere per ogni cittadino del cosiddetto Occidente. Certo, la verità fa male e bisogna anche avere il coraggio di volerla approfondire.

Si va dai piani di golpe in paesi considerati non-allineati agli Stati Uniti, all’omicidio di John Kennedy, agli esperimenti di sofisticate quanto disumane armi chimiche e batteriologiche, alle molteplici contraddizioni dietro alla versione ufficiale degli attentati alle Torri Gemelle.

Proprio della necessità di un’inchiesta su quanto accaduto davvero il giorno 11 settembre 2001 Ventura ha fatto uno dei leitmotiv delle sue apparizioni televisive degli ultimi 15-20 anni, mettendo più volte in serio imbarazzo i suoi intervistatori, palesemente impreparati di fronte a un ospite che invece appare aver studiato nei minimi dettagli le evidenze di quanto successo in quella tragica giornata.

Emblematica a tale proposito è l’intervista a Ventura condotta per la CNN da Piers Morgan, nella quale è The Body a mettere alle strette il suo intervistatore, convinto – o meglio cieco – sostenitore della versione ufficiale degli attentati. Riportiamo tradotte alcune parti salienti dell’intervista:

Ventura: “La loro [del governo] teoria è che 19 radicalisti islamici armati di cutter hanno sconfitto il nostro sistema difensivo multimiliardario mentre erano in combutta con un uomo barbuto che viveva in una caverna in Afghanistan.

Morgan: “Questa non è una teoria. E’ un fatto. Mi spiace uccidere le tue teorie cospirazioniste ma questo è ciò che è successo.”

Ventura: “Allora, come mai nessuno è stato processato? Non hanno portato nemmeno un briciolo di prove all’interno di un regolare processo.”

Morgan: “Perché sono tutti morti, in caso tu ti sia perso la storia.”

Ventura: “Allora come mai abbiamo tutti questi prigionieri a Guantanamo? Abbiamo le cosiddette confessioni dei prigionieri di Guantanamo, che sono stati torturati con il waterboarding 180 volte per estorcere le loro confessioni. Ho una notizia per te, Piers. Se ti facessero la stessa tortura 180 volte, confesseresti pure tu.”

Il pubblico, nemmeno a dirlo, è tutto dalla parte di Jesse – potere dell’onestà intellettuale – e Morgan esce dall’intervista con le ossa metaforicamente rotte. 

D’altra parte, l’abilità oratoria di Ventura è notevole e non stupisce che ai tempi delle elezioni in Minnesota, pur con un budget elettorale limitato all’osso e fatto di piccole donazioni, fosse riuscito a spuntarla sui candidati dei due principali partiti.

Oltre alle doti dialettiche, Ventura ha successo sia perché appare preparato e sia anche per il suo approccio diretto e sincero. Non di rado può capitare di sentirlo rispondere: “Non conosco l’argomento, ho bisogno di studiarlo e se è una cosa importante lo farò,” quando una domanda lo coglie di sorpresa. 

Recentemente, ha avuto modo di ribadire come i due punti cardini di un suo eventuale manifesto elettorale sarebbero: 1) no deciso agli interventi militari in altri paesi, definite da Ventura “operazioni di neo-colonialismo” 2) politiche di riduzione dell’inquinamento. In un’intervista di poche settimane fa, Ventura ha affermato di voler usare il termine “inquinamento” e non “riscaldamento globale” in quanto più immediato e più vicino alla quotidianità delle persone, senza per questo negare l’esistenza di un problema climatico su scala planetaria, il quale secondo Ventura è appunto conseguenza diretta di scelte sbagliate in tema di contrasto all’inquinamento.

Il rapporto con il Green Party

Si penserà che il fatto che il pacifismo e le battaglie ambientali, le posizioni in favore dei diritti degli omosessuali facciano di Ventura il candidato ideale del piccolo partito dei Verdi, ma non è così. Perlomeno, ci sono forti contrasti all’interno del Green Party sulla figura di Ventura. Sembra proprio che anche i minuscoli partiti della sinistra americana (peraltro Ventura non è definibile come “di destra o di sinistra” in quanto si definisce un conservatore fiscalmente e un liberale socialmente), così come i nostri, si mostrano inclini a sviluppare la sindrome da tafazzismo e anziché unirsi si disgregano per colpa di miopi manie di protagonismo.

Su questo punto Ventura ha manifestato il suo disappunto affermando – in maniera sacrosanta – che già la strada contro i due mega-partiti è a dir poco impervia e trovarsi anche a tenere insieme i cocci di un partito vorrebbe dire perdere energie preziose che invece andrebbero canalizzate e usate per realizzare un’impresa già di per sé titanica.

La volta buona? Forse no…

Non è soltanto a causa della posizione poco chiara nei suoi confronti del Green Party che Jesse non ha ancora sciolto la riserva sulla sua partecipazione alla corsa alla Casa Bianca, anche a causa di alcuni problemi di salute piuttosto seri all’interno della sua famiglia che non gli permettono di pronunciarsi definitivamente. 

L’impressione è che nemmeno questa volta potremo assistere a una sua candidatura, il che è un peccato perché per carisma, onestà e lucidità di ragionamento ed esperienza passata come governatore del Minnesota e prima ancora come sindaco della sesta città dello stesso stato, Ventura avrebbe davvero una possibilità di essere il candidato in grado di riportare alle urne quel 65% degli aventi diritto che normalmente disertano le votazioni e di dare una voce alla gente comune della provincia e delle periferie.

Certo, la squadra di governo sarebbe tutta da costruire e un presidente da solo non cambia le sorti di un paese di oltre 300 milioni di persone, ma può comunque ispirare attraverso il proprio esempio e il proprio comportamento sincero, e non è poco. La domanda quindi stavolta non parte da Ventura, ma da noi, e siamo sicuri che sia condivisa da migliaia di americani: If not you, Jesse, then who?

Post recenti

Leave a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.